Il neonato di Settimo Torinese è già morto. E noi?

«La lesione presente sulla testa del piccolo è un trauma da caduta, e le tre chiazze di sangue sull’asfalto potrebbero essere i segni del rimbalzo del corpicino.» Così si legge sulle cronache del corriere di ieri

Io lo chiamo Paolo. Questo santo veloce,  il piccolo martire istantaneo. Quel povero neonato e neomorto di Settimo Torinese.

La puerpera l’ha molto probabilmente gettato dal balcone o dalla macchina in corsa. E il suo corpo con l’anima attaccata ha fatto tre rimbalzi. Forse. Come la testa dell’Apostolo delle genti quando è stato decapitato, a Roma. Il sindaco è profondamente scosso, pensa ai suoi figli e come un padre normale prova sincero dolore,  forse rabbia per non aver potuto salvare questo inerme bambino. Anche il netturbino che ha chiamato i soccorsi dice a chi lo intervista che anche lui è papà e soffre molto. Moltissimo. Che se lo sarebbe pure adottato perché a lui e a sua moglie non manca niente. E che avrebbe voluto coprirlo subito ma il suo giubbino non era adatto. E il bambino era bello.

Fabrizio Puppo, sindaco di Settimo Torinese, dichiara, sempre sul corriere:

«Questa notizia mi ha letteralmente straziato il cuore prima di tutto come padre. Un neonato abbandonato per strada è una tragedia che lascia sgomenti, è una sconfitta per tutta la società. Un piccolo angelo volato in cielo in questo modo è un dramma che non trova conforto in nessuna parola. Al momento non sappiamo se chi ha abbandonato il neonato sia residente a Settimo, sono in corso le indagini».

Ora ci si attarda intorno alla scena del crimine. Ma il nastro giallo andrebbe allargato. Ha ragione il sindaco, è una sconfitta per tutti.

Però la colpa, l’atto è della madre, che ha confessato. E forse gravi, gravissime omissioni o azioni sono da attribuire al padre.  Anche ad altri, non si sa ancora nulla di certo.

Si chiama crimine, l’uccisione di quel neonato. Si dice morte alla constatazione del cessato battito cardiaco. Chissà che piccolo quel cuore! Chissà che dolore cadere dall’alto e rimbalzare. Chissà che freddo, che fame. Chissà cosa ha provato!

Non lo vedo riportato in nessun articolo ma a me è capitato di sentirlo rivolto a me e a mio figlio, gravemente menomato, il pensiero pseudo caritatevole che ora vi dico: «perché non l’ha abortito? Siamo nel 2017, com’è possibile?»

Già, come è stato possibile?

Ecco fino dove va srotolata la bobina di nastro che delimita la scena del crimine.

Non mi interessa niente degli sguardi dei progressisti commiseranti che si chiedono perché siamo ancora lì a mettere in discussione la legge 194 e tutte le sue omologhe planetarie. Potrebbe essere che quel muro stia per crollare. Il muro eretto dentro il nostro pensiero -sulle fondamenta della nostra stabile inclinazione all’egoismo -da quella maledetta legge per cui di qua c’è la vita, la civiltà, il poter vivere, di là no, di là se ti muovi troppo, se arrivi inopportuno,  sei ammalato o non torni utile ti uccidono.

Portiamolo fino in fondo il ragionamento, tanto la spinta dello sgomento, dell’orrore che ci contorce i visceri oggi ha ancora forza propulsiva.

Lo ha lasciato crescere e maturare fino alla nascita, questo figlio. Non lo ha abortito. E ha fatto bene, accidenti! Ha fatto bene! Lo avesse abortito in ospedale, magari da sola, previo appuntamento, impegnativa alla mano, di mattina presto; prima di una ragazza nigeriana o di qualsiasi altra nazionalità e dopo una sua coetanea italiana che il terzo figlio non se la sente di tenerselo, ci avrebbe risparmiato strazi, sgomenti, e numerosi “ma dove andremo a finire!”.