Erica è bella. Erica è intelligente. Erica è arguta. Erica è geniale e pacata. Erica è viva. E, ragazzi, scrive così bene. Ha un ritmo bellissimo, un fraseggio leggero e pulito. E quando serve affilato e tagliente per separare, tagliare, per curare e guarire.
Ora che ha guadato un grosso fiume è venuta a raccontarcelo.
Ha pubblicato da poco con la San Paolo un libro di platino. Perché è piccolo, una ventina di pagine oltre le cento, ma ha un altissimo peso specifico.
Ed è nobile, come un metallo prezioso. Potrebbe pure essere d’oro. Giallo come la porta che apre e chiude il libro. La porta che, aprendosi, l’ha attirata come un vento gelido salito dagli abissi sul crepaccio della malattia e dello sgomento. Che l’ha trascinata proprio dove aveva ben specificato di non voler essere condotta. Ne aveva parlato con Dio. Va bene quasi tutto, ma non il tumore.
Si è ritrovata invece davanti ad un dottore con una diagnosi in mano che metteva in fila proprio quelle odiose sillabe, al plurale, per giunta. Ma ora credo non le odi più così tanto perché con il suo garbo tenace e la sua grazia guerriera ha detto «Va bene. Se è questo che ora mi offre la vita lo prendo. Se è quella la strada che mi tocca imboccare la imboccherò. Se è lì, tra chemioterapie, interventi, prostrazioni che devo andare a combattere, imbraccio quel che posso e parto».
Giallo come la stessa porta che dopo due anni avrebbe chiuso le correnti più forti fuori della sua vita, seppure nella tremante e incerta speranza sul futuro. Erica sa più di chi non ha ancora incontrato battaglie simili che il futuro è incerto nei suoi programmi. Eppure è paradossalmente più certo, molto più di prima nel suo disegno e nel suo approdo.
Perché ne ha riconosciuto la firma nei momenti più duri. Quando, schiacciata dalla stanchezza delle terapie e anche dei pensieri, ancora non sapeva se doveva prepararsi a guarire o a morire.
Sapeva già che nelle nostre esistenze agisce la Provvidenza. Ma non l’aveva ancora vista all’opera nella versione agonistica, secondo una sua felicissima espressione. Riscopre la preghiera e i sacramenti nella loro più profonda natura ed efficacia. Riesce anche a sorridere per le reazioni di qualche parrocchiano per l’Unzione degli infermi da lei ricevuta come consolazione e aiuto fisico e spirituale.
Racconta dello spettacolo che è la sofferenza, secondo lo stesso significato che assume la parola usata dall’evangelista per descrivere Gesù che muore in croce. Spectaculum.
Così spogliata vede fiorire amicizie inaspettate che si fanno solerti esecutori e imitatori della tenerezza divina. Ma, attenzione, tutto questo non è retorico o manieroso nemmeno per sbaglio. La malattia, ricordiamolo, non ha alcun fascino suo proprio. È solo che c’è stato e c’è Gesù Cristo e questo, signori miei, cambia tutto. Ribalta proprio tutto.
Erica lo sapeva di già, ma ora lo sa in ogni fibra del suo essere. Ha capito di aver conquistato cose che altrimenti chissà che giro lungo avrebbe dovuto fare per andare a prendersele. Si è lasciata amare quando lei stessa si riteneva pochissimo amabile, ha accettato di avere bisogno e ha così approfondito la sua già ricca umanità. Ha permesso di essere amata quando sapeva bene di non poter ricambiare e ha avuto l’intelligenza di accorgersi che quello era un paradigma. Un modello di amore che Dio le stava ricordando, rimettendo in cuore.
«Sto scoprendo, in questo modo, guardando Gesù nella culla, accanto a Maria e Giuseppe, che nella malattia, così difficile da vivere, divento come una bambina che dipende da tutti ed è bisognosa di tutto. Sto scoprendo, guardando il Crocifisso, che ogni volta che saprò accettare e offrire il mio dolore, potrò essere la via per salvare un’altra persona dalla disperazione, così come è successo a me nel guardare chi ha saputo accettare la malattia trasformandola in via per incontrare e far incontrare Dio. Se saprò essere docile diventerò tabernacolo per Gesù. E chi mi starà vicino, se io mi lascerò aiutare, potrà avvicinarsi a Lui». (p. 89)
Ecco. Queste parole sono di metallo. Sono vere e brillanti. Estratte a mani nude da miniere oscure e inospitali. Non sono un allegato pensoso al sussidio per catechisti 2.0.
Chiunque può incontrare in varie forme il dolore e la prova. Ma quando ci capitasse siamo sicuri di avere un cuore vivo come quello di Erica da lasciarci trafiggere?
Se potete regalatevi questo fazzoletto ricamato di vita, che è il suo primo e spero non ultimo libro. Si legge di corsa perché viene subito voglia di rubarle il suo segreto. Si legge veloce perché veloci e profondi sono i passi e gli occhi dei suoi tre bambini che vivono con coraggio e paura la malattia della loro mamma. Ci si commuove con loro e per loro, ma senza indugiare in qualche angolo o disimpegno della casa del dolore dedicato al compiangersi o al compiacersi. Non ci sono stanze inutili. C’è il dolore umano così odioso eppure salutare. C’è la forza di un amore coniugale che nella sua apparente normalità nasconde una fibra resistente ed elastica.
Si ha voglia di stare con loro, sui loro monti vicino al lago o in gita a Roma, come è capitato a noi. O a casa nostra in giardino a fare un pic-nic e inventarsi lavoretti. O vedere giocare i nostri figli.
Erica ha uno sguardo così potente che in un paio di minuti ha colto le personalità di tutte le mie tre figlie. Ma non abusa mai di questo potere.
Insomma non so più se questo mio pezzo si possa spacciare per la recensione di un libro. Voleva esserlo. Invece è un elogio. È un inno di ringraziamento per una nuova e fiammeggiante amicizia che il Signore di tutte le vite ha voluto regalarmi. Sì, il Signore. Lo stesso che governa fulmini, tempeste e soleggiate. Lo stesso che lascia cadere infermità e tumori sui suoi piccoli figli quasi innocenti. Lo stesso che li sostiene e li consola. Lo stesso che scolpisce e prova nel fuoco. Lo stesso che, passata la prova, ci soffia via la polvere e ci tiene in mano per farci brillare. Come l’oro, come il platino. Come Erica e tutti i suoi.